Tay-Tay-3

Il nome è uguale a quello di uno molto più conosciuto, ma lui, Tayyip, ha un aspetto e una verve che farebbe invidia anche al nostro Cumhurbaşkanı (Presidente della Repubblica, NdR).

Passa le giornate dietro il suo maxi fornello, in un piccolo ritrovo a Üçkuyular, Izmir. Nulla di speciale, all’apparenza, ma, averlo a poche centinaia di metri da casa propria, quando si è italiani, può essere molto piacevole.

Questa accogliente bettola si chiama proprio “TAY-TAY” e, data la mia particolare ignoranza in fatto di nomi, al mio arrivo sembrava avesse un retrogusto esotico, la Thailandia.

Classe 1985, fondata nel 1985, nel vero senso del termine, perché qui a Üçkuyular è proprio un’istituzione, da quest’uomo, Tayyip, che ha i tratti paffuti e una voce che sembra a stento esca dalla sua bocca, TAY-TAY ha le caratteristiche della taverna del popolo, fatta di chiacchiere e finti segreti, e la velocità del servizio e del consumo dei fast-food moderni.

All’inizio era molto difficile farsi capire e, dopo i primi sorrisi, quelli finti e di imbarazzo, si è finalmente arrivati a quelli spontanei e veri. Ma anche a quelli dovuti alla sorpresa. Questo posto dall’aspetto spartano e quasi trascurato è frequentato da gente di ogni tipo: studenti universitari, operai, avvocati, attori, e da qualche vecchio console italiano che, mi specifica TAY-TAY, una quindicina di anni fa passava da quelle parti dopo la partita a calcio settimanale con gli amici, per un kebab o un köfte. Tutti amici suoi, che entrano, escono dal negozio, si servono da soli, servono gli altri e iniziano a pulire i tavoli perché non hanno nulla da fare.

Sono ben trent’anni che il negozio è lì, e quasi tutti gli abitanti del quartiere e oltre, ci sono passati. Tante volte mi è capitato di essere chiamata “Italia” e allora c’era sempre una voce che spuntava: “Ciao, come stai?”, qualche studente turco che aveva frequentato corsi di italiano; oppure qualcuno che mi si avvicinava chiedendomi cose improbabili: Aldo Moro, Togliatti, la Questione Meridionale. Aiutata da interpreti improvvisati avevo di fronte persone che sapevano molto della storia del Bel Paese, al di là della banale storia contemporanea berlusconiana. C’è chi mi ha fatto recapitare opere di Cesare Pavese e Italo Calvino in lingua italiana, andando a scomodare chissà quale amico.

Tayyip ha vissuto in pieno il 1968 in Turchia, ha abbracciato le idee di sinistra e il suo camice da cucina è sempre “casualmente” interamente rosso.

Oggi i suoi capelli sono bianchi, riccioluti ma ordinati, e con la sua chioma un po’ anticonformista data l’età, mi dice che non avrebbe più bisogno di lavorare, ha guadagnato da poter vivere, ma che non riuscirebbe a “interrompere” la sua vita chiudendo il suo ritrovo.

Mentre mi dice queste cose, oleandomi il mio minuscolo dizionarietto italiano-turco, qualcuno entra, si lava le mani e se ne va, un altro prende un ayran e dice che lo pagherà domani. E lo farà.

Lo dice Strabone, in Geografia, che in queste zone le razze si mischiano a causa dell’ospitalità degli autoctoni, si mischiano al punto tale che dopo è difficile riconoscerle. Contrariamente a come direbbe qualcuno.