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Nella prima settimana post elettorale in Turchia i titoli della stampa di mezzo mondo, soprattutto occidentale, hanno dato fiato alle trombe apocalittiche della fine della democrazia in Turchia:

La Turchia è davvero alla fine del suo percorso democratico?

Da un punto di vista elettorale, quello che è avvenuto in Turchia lo scorso 1 novembre è la massima espressione di democrazia. il numero di elettori che si sono recati alle urne è stato pari all’85,18% in crescita del 1,26% rispetto a quelle del 7 Giugno. Dato che risulta ancora più evidente se consideriamo che nelle elezioni politiche del 2013 in Italia, l’affluenza nel Bel Paese è stata del 75,19%, in calo del 5% rispetto al 2008, dopo un governo tecnico (quello monti) della durata di 2 anni e in una situazione economica disastrosa.

Molti hanno parlato di brogli elettorali, grazie ai quali sarebbero addirittura spariti 10 milioni di voti sul totale dei 54.813.371 aventi diritto, ovvero quasi il 20% del totale. Voti che, secondo Özlem Önder su Micromega, sarebbero stati resi nulli. In realtà i voti invalidi sono stati poco meno di 700.000, quasi la metà in meno delle elezioni del 7 giugno quando furono più di 1 milione e 300 mila.

Sulla distribuzione dei voti abbiamo assistito a una “rivoluzione”. Partiti come MHP (Partito nazionalista) e HDP (Partito filo-curdo), che sono stati la rivelazione delle precedenti elezioni, hanno visto calare i consensi rispettivamente dal 16,3% al 11,9% e dal 13,1% al 10,8% a fronte di diversi motivi che possono essere riassunti in un “NO” oltranzista a qualsiasi coalizione da parte di MHP e una incapacità di HDP di prendere le distanze dal movimento terroristico PKK. Viceversa, AKP è riuscito nell’intento di dare un messaggio di speranza e di risoluzione dei problemi che non è stato altrettanto forte negli altri due partiti. CHP, invece, sembra aver capito dove si giocava la battaglia ed è riuscito, anche se in minima parte, a raccoglierne i frutti con un +0,4%.

Al di là dei movimenti elettorali, comunque, se le elezioni del 7 giugno sono state il messaggio ad AKP di non tirare troppo la corda, le elezioni del 1 Novembre sono state la risposta di AKP con un “abbiamo capito, cambieremo”. Anche da questo punto di vista, il voto del 1 Novembre è stato uno strumento di democrazia.

La Turchia, alla fine, ha scelto. E ha scelto Erdoğan e l’AKP, nonostante negli anni scorsi ci siano stati casi ed evidenze che avrebbero potuto modificare, così come accaduto a Giugno, la decisione di consentire la formazione di un governo monocolore. Il consenso al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, invece, è stato maggiore anche in città dove storicamente non ha mai rappresentato una vera alternativa. Ad Izmir, ad esempio, AKP ha guadagnato il 31% dei consensi, quasi un 5% in più rispetto a Giugno (ma un -5% rispetto al 2011), mentre il partito CHP, di cui Izmir è roccaforte, si ferma al 46,8% in crescita dell’1,4% rispetto al turno precedente e del +3% se confrontato con le elezioni del 2011.

E’ evidente che se anche in una città come Izmir, roccaforte nazionalista e kemalista, AKP guadagna il 5% in più dei voti, catturando un terzo della popolazione, è doveroso andare a cercare le ragioni di questo cambio senza troppo semplificare.

Un voto per la stabilità

Il voto per AKP è stato veramente un voto per la stabilità. In molti si sono spaventati dalla situazione post elettorale del 7 Giugno: il dollaro aveva raggiunto il record storico con un cambio di 1 dollaro = 3 TL; l’Euro aveva scalato ogni soglia precedente raggiungendo le 3,5 TL. Svalutazioni che, a causa di una forte dipendenza dalle importazioni, si sono subito riflessi nei costi energetici e nei prezzi al consumo portando l’inflazione nominale all’8% su base annua. Il Turismo, a causa della situazione siriana e degli attentati nel paese, ha subito un tracollo perdendo il 4,4% dei ricavi nel terzo trimestre. Le esportazioni sono scese dell’1,5% e il tasso di disoccupazione a Luglio continuava ad essere al 9,8%. A questo quadro economico, si aggiunga il sentimento di insicurezza interna e il pericolo terrorismo che ha avuto il suo punto massimo con la strage di Ankara del 10 ottobre scorso. Molti elettori hanno scelto consapelvomente di assegnare nuovamente ad AKP l’incarico di sistemare le cose.

Un voto per la stabilità, ma non stabile

Se comunque una parte dell’elettorato di AKP è ormai consolidato e si attesta attorno al 40%, l’esperienza di quest’anno, ci insegna che vi è almeno un 10% di elettorato che si ritiene mobile e non vota per ideologia, quanto per opportunità. Inoltre vi è un altro 10/11%, rappresentato dal partito filo-curdo formato non solo da elettori di etnia curda, ma anche da persone più vicine a idee di sinistra e che, salvo cambiamenti profondi, è destinato a rimanere come parte stabile del sistema partitico del paese e potrebbe tornare nuovamente a crescere, una volta modificata la componente etnica ed elevata a discorso nazionale. La stessa crescita del CHP e il dialogo con HDP potrebbe portare a una modifica alla fotografia generale dell’elettorato dei singoli partiti.

La democrazia in Turchia, almeno da un punto di vista di processo elettorale, sembra tutt’altro che in pericolo. Forse si sta consolidando solo ora. Rispetto ad anni fa, sembra essere più matura e l’elettorato più consapevole dell’influenza del proprio voto.